Un’Orchestra di trent’anni (e di trentenni)

Foto scattata in occasione della prima prova dell’Orchestra, nel 1991

Tre decenni, virgola qualcosa. Poco meno dell’età dei miei figli, che erano piccolissimi (e il più giovane dei tre non c’era ancora) quando l’Orchestra nacque in un lontano e palindromo 1991, turbato dalla Guerra del Golfo e dal caso della Uno bianca, ma elettrizzato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dal ritrovamento di Ötzi, il cacciatore dei ghiacciai venuto dall’età del rame.

Trentadue anni il 23 marzo, per l’esattezza (la pandemia non ci ha consentito di festeggiare nel 2021), solo uno in meno dell’età che aveva il primo presidente, il trombettista di Rogolo Giorgio Corti, quando nel 1998 se ne andò, dopo una dolorosa malattia, lasciandoci increduli e sgomenti. Poco tempo dopo il suo funerale, in sogno come fosse una commedia napoletana, mi diede ruota e numeri del Lotto: io che non ci credevo abbastanza non li giocai, ma erano quelli giusti e uscirono tutti, a dirmi che credere era – ed è la cosa più importante.

Trentenni, dunque, erano i musicisti valtellinesi che ci credettero contro ogni logica, contro i detrattori e i profeti di sventura, e fondarono l’Orchestra di Fiati, perché a fiato erano gli strumenti che suonavano, in cui si erano diplomati (oggi si dice laureati) al Conservatorio. I loro visi giovani, che si rivedono oggi con qualche nostalgia sulle fotografie dell’epoca, sembrano dar ragione a Oriana Fallaci, che nel 1965 (ai suoi trentasei) aveva scritto: «Sono stupendi i trent’anni, ed anche i trentuno, i trentadue, i trentatré, i trentaquattro, i trentacinque! Sono stupendi perché sono liberi, ribelli, fuorilegge, perché è finita l’angoscia dell’attesa, non è incominciata la malinconia del declino, perché siamo lucidi, finalmente, a trent’anni!».

Ma di trentenni ne abbiamo anche oggi tra le fila dell’Orchestra, oggi che il mondo è in ansia per il clima impazzito, e come ritrovamenti archeologici finge di interessarsi a una statua di Ercole a Roma. Perché, trentenni semplici o doppi (cioè sessantenni), tutti siamo ugualmente turbati dalla guerra che vorrebbe far rinascere proprio quell’Unione Sovietica, o una versione persino peggiore.

Però, intanto, constatiamo che il suo (musicalmente parlando) bellissimo inno ha resistito a tutti i cambiamenti, a tutto il sangue sparso, a tutte le cattiverie umane e tecnocratiche: simbolo, sia pur minimale, della musica che ci sopravvive, che sopravvive alle nostre malattie, alle nostre miserie, ai nostri errori, che ha una sua vita – immortale – e qualche volta ci porta con sé al di là del tempo, a vedere il futuro; e infine scopriamo, trent’anni dopo, che quel futuro era proprio così.

In fondo, bastava crederci.

Lorenzo Della Fonte

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